Proviamo a specificare meglio: tu hai fatto il team manager di squadre ufficiali come KTM (in 125 e 250) e Aprilia SBK, mentre adesso lavori per una squadra satellite. Puoi dire esattamente cosa fa un team manager e qual è la differenza tra squadra ufficiale e satellite?«Intanto, la preparazione della stagione è molto differente. Il team manager di una squadra ufficiale deve proporre, è lui che deve cercare di dare un indirizzo al team, ma alle spalle ha una Azienda che deve dare una giustificazione alle corse, secondo una strategia ben precisa che dipende da fattori come il marketing e la comunicazione. C’è anche un ufficio legale, che segue tutta la parte contrattuale, delle sponsorizzazioni, con una struttura complessa ed articolata: ogni reparto ha le sue esigenze, le sue difficoltà e il team manager deve cercare di mettere insieme tutti i “pezzi”. Inoltre, in una squadra ufficiale, solitamente ci sono piloti di un certo livello, con determinate caratteristiche, con una forte personalità: insomma, la gestione è abbastanza complessa, ma hai anche tanti strumenti da utilizzare, hai un supporto alle spalle. In una squadra privata, devi fare un po’ tutto da solo: dalla parte legale alla comunicazione e alla logistica. Le necessità sono più modeste, ma anche le disponibilità e ti devi confrontare con le squadre ufficiali: insomma è piuttosto difficile».
Ma il team manager è una figura assolutamente indispensabile o potrebbe esistere una squadra senza team manager?«Chiamalo come vuoi – proprietario della squadra, team coordinator, team manager, team principal – ma ci vuole una figura che tiene insieme 30 persone. Deve essere una figura con un certo carisma, una persona della quale le altre 29 si fidano, uno che quando dice una cosa, 9 volte su 10 riesce a realizzarla. Deve cercare di prevenire i problemi: quando arrivi in pista, deve funzionare tutto, non ci devono essere particolari problemi. Qualche anno fa era meno importante, perché per un pilota c’erano al massimo quattro persone ed era il capo meccanico a fare da riferimento per la squadra. Adesso non è più possibile e c’è anche l’hospitality da gestire, una parte importante che si è evoluta negli anni: è uno strumento che serve ad attirare interesse, ospiti, persone che magari non hanno mai visto una corsa o una moto. Li devi accogliere in un ambiente che li faccia sentire a proprio agio, perché nel box, più di tanto non ci possono stare. Insomma, il mio lavoro si è tanto evoluto e diversificato. Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di vivere due epoche piuttosto importanti del motociclismo moderno: quella dei primi anni Novanta, con il passaggio dalle moto artigianali a quelle ufficiali con l’intervento diretto di Honda, Yamaha, Aprilia e della altre Case, che hanno dato una grande accelerazione all’evoluzione delle moto; poi i primi anni 2000, con la fine dei motori 2T, sostituiti dai 4T».
Biaggi, al contrario, non è certo famoso per essere un carattere facile…«Tutt’altro! Ho avuto modo di conoscere Biaggi quando faceva la Sport Production, nel 1989-1990, perché noi (nel senso dell’azienda Guidotti, NDA) facevamo servizio di assistenza per l’Aprilia anche nella SP: già lì si capiva che era un ragazzo sveglio. Nel 1991 ha fatto l’europeo 250 con il Team Italia e io, pur andando ancora a scuola, mi liberavo abbastanza spesso per andare alle gare e facevo da aiuto meccanico. Eravamo entrambi ragazzini e siamo tornati a lavorare insieme a distanza di quasi vent’anni: per me non è stato così difficile con lui. Max tende a mettere molta pressione, a volte anche arroganza nel modo di chiedere le cose, nei modi di fare, ma grazie al rapporto che si era instaurato nel tempo, ho sempre avuto modo di dirgli le cose giuste al momento giusto. Non ci sono stati momenti di grandi tensioni: la difficoltà più grande era trasformare per l’Azienda in positivo quello che lui diceva di negativo, ammorbidire le sue maniere poco ortodosse. Con Max ho ancora un buonissimo rapporto, però è chiaro che lavorare con lui è difficile. Ma in due anni abbiamo portato a casa un mondiale: alla fine è quello che conta. In quegli anni, in Aprilia c’era tanta pressione, perché era stato fatto un investimento importante in un momento difficile, perché c’era uno sponsor di prestigio come Alitalia, per Max era una sfida nuova, era ammesso un solo risultato: vincere. Abbiamo fatto un buon lavoro, mentre l’anno dopo, stranamente, lui l’aveva presa un po’ sottogamba, sono accaduti un po’ di episodi particolari, fatto sta che non siamo riusciti a ripeterci».
Fonte: http://www.moto.it/MotoGP/dietro-quinte-motogp-francesco-guidotti.html
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